L’opera

Vasilij Grossman

Baluardo contro l’ideologia

di Pigi Colognesi

(da Tracce n.8 Settembre 2002)

Prima, autore perfettamente integrato nel meccanismo sovietico. Poi qualcosa comincia a incrinarsi. Infine la rottura e il rifiuto dell’ideologia. E l’apertura alla realtà secondo tutti i suoi fattori. Qualche spunto per leggere Vita e destino, il capolavoro dello scrittore russo

Grossman è stato, negli anni Quaranta, in pieno regime staliniano, un autore perfettamente integrato nel meccanismo sovietico, secondo il quale gli scrittori dovevano essere “ingegneri dell’anima”, gente incaricata di convincere le masse di quanto buono fosse il regime comunista e di quanto tremendi i suoi nemici. Per Grossman tutto filò liscio (in realtà non proprio tutto, ma non abbiamo spazio per dettagliare) fino alla pubblicazione (nel 1952) di Per la giusta causa, epica ricostruzione delle prime fasi dell’attacco nazista all’Urss, visto attraverso gli occhi di una famiglia numerosa: i Saposnikov. Il romanzo ebbe grande successo. Ma, intanto, qualcosa si era rotto nella fino ad allora granitica sicurezza nell’ideologia comunista che animava Grossman. Fu certamente il fatto di accorgersi che Stalin stava pianificando una terribile “purga” nei confronti degli ebrei (Grossman era ebreo, seppure non credente, e aveva puntigliosamente ricostruito in un Libro nero le atrocità naziste contro i suoi connazionali nei territori occupati). Ma fu soprattutto la vittoria in lui della realtà contro l’ideologia, della “vita” oltre ogni “giusta causa”. Grossman si accinse a scrivere una seconda parte di Per la giusta causa: i personaggi erano gli stessi, ma completamente diverso il clima, la consapevolezza dell’autore e, quindi, il risultato artistico: Vita e destino, appunto, concluso nel 1960 e pubblicato per la prima volta all’estero nel 1980.

Credo, che la maggior parte delle difficoltà del lettore italiano derivino dal fatto di non aver letto la prima parte della storia (che, del resto, non è stata tradotta) e, quindi, di non conoscere parentele, vicende passate, amori e avventure dei personaggi che affollano le pagine di Vita e destino. Proprio per ovviare a questa difficoltà, rinuncio a parte delle mie 180 righe per ospitare una presentazione dei principali personaggi.

Presa di distanza

Con tutta questa lunga premessa, non ho ancora detto perché vale la pena di leggere Vita e destino. Vale la pena perché vi troviamo la più radicale presa di distanza dall’ideologia che la letteratura del Novecento (il secolo delle ideologie per eccellenza) ci abbia lasciato. Cos’è l’ideologia? È quella costruzione del pensiero (e conseguente organizzazione sociale e politica, quando l’ideologia sale al potere) che pretende di imporsi alla realtà partendo dal proprio preconcetto punto di vista. Comunismo e nazismo ne sono state, nel Novecento, le più mostruose impersonificazioni, ma l’ideologia è un atteggiamento, una posizione, che rinasce continuamente. Magari sotto forme più “soft”, ma sempre intrinsecamente violente. Il grande cambiamento intervenuto in Grossman nel passaggio da Per la giusta causa a Vita e destino è proprio il rifiuto dell’ideologia. Ed è significativo che il nostro autore abbia intuito prima di molti altri – siamo agli inizi degli anni Sessanta – quello che ancora oggi parecchi si rifiutano di ammettere: la sostanziale uguaglianza, la radicale somiglianza di nazismo e comunismo, quanto ad approccio ideologico e conseguente distruzione della realtà, laddove essa non si adatti agli schemi dell’ideologia. Si vedano, in proposito, le tremende pagine del colloquio in lager del comandante nazista Liss e del vecchio bolscevico Mostovskoj (Parte seconda, capitolo 15), nelle quali il primo sostiene la specularità delle due ideologie rispettivamente sostenute, seppure partendo da principi – preconcetti – differenti: la razza o l’origine sociale.

Ma cosa, agli occhi di Grossman, si oppone all’ideologia? Cosa la vince? Vi si oppongono le due parole che costituiscono il titolo stesso del romanzo: la vita e il destino.

La vita

Tutto il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita senza aggettivi, senza idee che pretendono giustificarla, senza utopie che presumono darle uno scopo. La vita fatta di gioia e dolore, di bassezze e di eroismi, di amore e di paura. La vita nella sua semplicità di dono originale cui niente può opporsi, di evidenza elementare e positiva che nessuna disgrazia o dolore può negare. Sono innumerevoli le pagine che si potrebbero citare per documentare l’appassionato amore alla vita che percorre tutto il romanzo. Si tratta di brevi e folgoranti battute (il vecchio che propone di dare «una medaglia di un paio di chili» alla giovane donna che ha messo al mondo una nuova vita «in questa galera dove si dà la stella di eroe per uccidere più gente possibile») o di lunghe, commoventi, amare e dolcissime riflessioni. Come quella della vecchia ebrea, chiusa dai nazisti in un ghetto e prossima a essere uccisa; scrivendo al figlio la sua ultima lettera (Parte prima, capitolo 18) essa conclude così: «Ecco l’ultima frase dell’ultima lettera della mamma indirizzata a te. Vivi, vivi, vivi per sempre…». Si noti che quel “per sempre” apre lo spiraglio sull’eterno, sull’infinito, sulla dimensione religiosa che Grossman non ha mai tematizzato nel romanzo, ma che ne investe le pagine da cima a fondo.

Il destino

Il punto di fuga sul mistero è ancora più chiaro osservando la seconda parola del titolo, la seconda grande alternativa al trionfo dell’ideologia: destino. La vita non è la pura sopravvivenza animale; essa porta con sé una “destinazione” incrollabile, inevitabile: la felicità. Questo è il destino di tutte le vite che si agitano nel romanzo; questa è la ricerca di tutti, la meta desiderata e sperata. E drammaticamente misteriosa. Alexandra Vladimirovna, la capostipite della famiglia Saposnikov, alla fine delle avventure narrate nel romanzo, si ritrova di fronte alle rovine della sua casa nella Stalingrado finalmente liberata dall’invasione tedesca. Il suo pensiero va ai figli, alle figlie e alle loro famiglie e la sua domanda è la domanda tipica dell’amore vero: quale destino avranno? Raggiungeranno la felicità che cercano nei travagli delle loro scelte, nelle cadute dei loro errori, nelle sofferenze dei loro amori? Alexandra Vladimirovna non lo sa. Ma di una cosa è certa: «Qualunque cosa li attenda, la celebrità per la loro fatica o la solitudine, la disperazione e la miseria, il lager e la condanna essi vivranno da uomini, e da uomini morranno: proprio in questo consiste per l’eternità l’amara vittoria umana su tutte le forze maestose e disumane che ci sono state e ci saranno nel mondo». Le forze – Grossman non lo dice ma lo lascia intendere chiaramente – dell’ideologia, le forze del potere che trasformano il destino buono dell’uomo in fato implacabile. Non lo sa, Alexandra Vladimirovna, quale sarà il destino dei suoi cari; e neppure al lettore è risparmiato questo momento di vertigine di fronte al destino; neppure noi sappiamo che fine farà Serë Saposnikov, il giovane soldato della «casa sei barra uno» che ha trovato l’amore e una nuova paternità sotto i bombardamenti; neppure noi sappiamo che fine farà Krymov, il vecchio bolscevico torturato dai giudici procuratori della Lubjanka per un suo vecchio apprezzamento a Trozkij, né sappiamo se sua moglie Evgenija gli sarà fedele; neppure noi sappiamo che ne sarà di Vera e del suo piccolo bambino (quello che le dovrebbe meritare la “medaglia da due chili”). Neppure noi lo sappiamo e non perché il romanzo sia incompiuto, ma per una precisa scelta dell’autore di lasciarci con la domanda aperta. Non lo sappiamo, ma il romanzo ci ha ormai lasciato il suo alto insegnamento di attaccamento alla vita e al suo destino.